In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

a proposito di un'immagine fastidiosa

 Qualche tempo fa, a degno corredo di ancor più degna recensione dell’ultima fatica di Giampaolo Pansa, l’autorevole quotidiano L’Avvenire ha pubblicato, a tutta pagina, l’immagine qui riprodotta.
È una fotografia che non si guarda con piacere: per quanto incruento, quell’ atto,che umilia e avvilisce un vinto, ci turba.
Ancora di più può disturbare chi, nato a distanza da quegli avvenimenti, e quindi non solo lontano, ma estraneo, al pathos di quel momento grande e terribile, è nell’impossibilità di evocare l’atmosfera concreta in cui tali fatti accaddero.
La gogna, come pubblica ostensione di colpa e castigo, necessita della viva presenza di entrambi i termini e si consuma, quindi, nell’atto stesso del suo compiersi.
Nell’istante in cui si fa giustizia, l’espiazione del castigo cancella la colpa ed è per questa ragione che le immagini di un qualsiasi atto di giustizia, una volta separate dall’attualità emozionale dei criminosi eventi che lo hanno prodotto, ci disgustano, si pensi, per esempio, a Piazzale Loreto.
La prima osservazione da fare è che l’atto di giustizia, se pure redime le colpe, non può cancellare il delitto che, anche se non appare in fotografia, resta, e può testimoniare a giustificazione e intelligenza di ciò che si vede.
Il problema della comprensione di ciò che si racconta e della differenza tra questo e ciò che è immediatamente vissuto, fu affrontato già nella Grecia antica, dove all’inesplicabile istantaneità del mistero venne contrapposta la storicità, chiarificatrice, della tragedia.
Anche nel nostro caso è necessario abbandonare il linguaggio fuorviante e parziale della cronaca, che ha senso solo quando è coeva agli avvenimenti, per affrontare la questione nella sua corretta dimensione storica.
Dobbiamo in primo luogo verificare se quest’immagine possa effettivamente ritrarre l’esecuzione di un atto di giustizia, che, per realizzarsi, necessita di due condizioni: che ci sia stato un delitto e che qualcuno, in ordine a quello, sia stato condannato.
L’Avvenire lo mette in dubbio, infatti la didascalia che accompagna la fotografia recita:
Una donna viene rasata a zero dai partigiani perché accusata di aver sorriso a soldati tedeschi.
Ora, naturalmente, sorridere a chicchessia non può essere considerato un delitto. Si noti anche che il sorriso era rivolto a soldati, un termine generico la cui specificazione evita qualsiasi valenza negativa, né nazisti, né invasori, solo tedeschi.
La donna, per di più è solo accusata. Qui si vuol far leva sulla nozione, di recente acquisizione, di garantismo, per cui accusato non vuol dire colpevole.
Siamo perfettamente d’accordo, nessuno può dirsi colpevole fino a quando non è stato condannato.
Il punto sta però nel fatto che la donna, evidentemente, da qualcuno è stata condannata. Si può mettere in dubbio l’imparzialità e la competenza di chi l’ha condannata, la sommarietà del rito, la legittimità dell’organo che ha emesso la sentenza, ma non si può mettere in dubbio che ci sia stata una condanna, tant’è che la pena viene comminata.
Quanto al sorriso, è evidente che il giornale dei vescovi è rimasto prigioniero della propria pruderie, più corporali grazie dobbiamo intendere.
E la questione, sia chiaro, non è di morale sessuale, ma di diritto penale, configurando una fattispecie di quel sostegno morale e materiale al nemico che ogni Paese, in caso di guerra, vieta.
La ragazza viene quindi rapata a zero per aver fraternizzato con il nemico, colpa non capitale, ma pur sempre grave nel momento in cui tanti suoi coetanei sono dal nemico rastrellati, deportati, torturati, fucilati.
Poco importa se lo abbia fatto per amore, per simpatia o per vantaggio personale: in un momento collettivamente drammatico ha posto le proprie esigenze individuali al primo posto, disertando da una necessaria e moralmente imperativa solidarietà.
La colpa è, al momento degli avvenimenti, avvertita socialmente come tale, e le corti marziali, anche improvvisate, che giudicano, sono riconosciute internazionalmente.
L’aver stabilito la sussistenza di delitto e condanna non basta di per sé a rendere automaticamente accettabile la pena, occorre anche dimostrare che il castigo non sia arbitrario, bensì in qualche modo commisurato alla colpa.
La questione va affrontata relativamente al concreto momento storico in cui si svolge, un periodo eccezionale che comporta almeno due correlati: chi viene giudicato è comunque complice, sia pure in misura anche infinitesimale, di abnormi crimini contro l’umanità; chi giudica ha l’implicito vincolo ad operare una netta soluzione di continuità rispetto a quella concezione del diritto che è stata parte integrante dell’ideologia sotto accusa.
La pena dunque, per essere equa, non deve essere solo quantitativamente commisurata al delitto, ma dovrebbe anche avere delle caratteristiche qualitative che segnino la rottura con il passato.
L’elemento quantitativo di una pena è misurabile in base alle unità di tempo che vengono sottratte alla libera fruizione del condannato: l’intera esistenza, con la pena capitale, quantità variabili con quelle detentive.
In questo caso ci troviamo davanti ad una pena erogata istantaneamente, irrisoria dal punto di vista temporale. Ogni elemento di iniquità va pertanto cercato nella sua dimensione qualitativa che ci apprestiamo ad analizzare con la massima severità.
Il taglio dei capelli a zero dal punto di vista morale è una inammissibile irruzione nella sfera del privato, lesiva della dignità e del pudore. Si invade un area indisponibile della persona determinandovi un senso di spoliazione.
Dal punto di vista materiale è un intervento somatico brutale, che cambia i connotati, rendendo il soggetto irriconoscibile come persona, ma identificabile come nemico, annulla l’individualità confinando in una categoria.
Come tipologia di pena è una sorta di mutilazione, apparentata alla decapitazione, alla castrazione, all’amputazione degli arti ed affonda quindi le sue radici in concezioni primitive del diritto.
Bisogna ora verificare se le tre categorie individuate: spoliazione, spersonalizzazione, mutilazione siano, così come si determinano concretamente nell’aprile del 1945, elementi di rottura o di continuità rispetto alla tragica tradizione precedente.
Definendo spoliazione l’aspetto della pena che osta alla dignità e al pudore della persona si è alluso anche al senso letterale del termine, facendo riferimento non solo ad un limite estremo di umiliazione, ma anche a un significato simbolico proprio dell’azione della rasatura coatta.
I capelli sono l’attributo iconografico della peccatrice Maddalena, tagliare i capelli può quindi essere un modo di denotare la particolare natura della colpa punita. Ma rimanendo sul terreno dell’agiografia si può anche andare oltre: La leggenda aurea narra di prostitute redente, Santa Maria Egiziaca , Taide, aggirantisi penitenti nel deserto della Tebaide con i lunghi capelli come unica veste.
Esporre la condannata col cranio rasato significa dunque svergognarla al punto di farla metaforicamente sfilare nuda.
Nelle fotografie qui accanto si vedono in azione, in Ucraina, i soldati tedeschi, forse non gli stessi a cui sorrideva la nostrana Lilì Marlene, ma poco importa.
Donne, vecchi e bambini sono spogliati fuor di metafora e tra un istante saranno spogliati della vita stessa.
Paradossalmente l’imminente fucilazione potrebbe essere un’attenuante, la svestizione è forse imposta dalla ferrea razionalità teutonica, per cui si evita di crivellare e insozzare abiti ancora utilizzabili, e non alla deliberata volontà di umiliare le vittime. Ma i deportati in realtà vengono denudati spesso e volentieri - si comincia sui binari, appena giunti al campo - in un’evidente strategia psicologica di annientamento.
C’è una rozza variante nostrana, la racconta Manlio Cancogni, nella Storia dello squadrismo, dove riferisce come pratica abituale da parte delle squadracce fasciste il far passeggiare in cerchio, con le sottane rimboccate, e fino a compimento dell’azione lassativa, le antifasciste a cui era stato somministrato l’olio di ricino.
In questo caso la violenza contro il pudore si spinge fino alla più infame volgarità.
È evidente che nella pena della collaborazionista il concetto di spoliazione si è radicalmente trasformato: all’umiliazione del corpo nudo esposto agli sguardi, pratica abituale della tecnica di annichilimento psicologico nazista e pecoreccia trovata estemporanea dello squadrismo antemarcia, si sostituisce una sua metafora.
Il castigo perde sostanza nelle forme materiali per acquisirne in ambito morale.

La fotografia mostra un internato nel campo italiano di Arbe (Jugoslavia) ed è uguale a qualsiasi altra immagine scattata in un lager. Tutte le facce sembrano uguali e diventa difficile anche distinguere i maschi dalle femmine.
È esattamente ciò che si voleva ottenere. La rasatura, associata al numero che sostituisce il nome e all’uniforme che rimpiazza gli abiti, più che ad evitare l’annidarsi di parassiti, è funzionale alla cancellazione, scientificamente programmata, dell’identità. Il destino all’orizzonte è quello di un indifferenziato rimescolamento di ossa nella fossa comune.
Non è evidentemente la stessa cosa della pena temporanea erogata a chi viene senz’altro restituito alla propria quotidiana ed abituale esistenza, ai propri abiti, con relativi, mimetici copricapi e che può contare sulla protezione delle rassicuranti pareti domestiche dove, se vuole, può celarsi agli sguardi indiscreti per le poche settimane che occorrono al ripristino di una dignità perduta, in ogni caso, altrove e in altro modo.
Alla bella collaborazionista spetta dunque, come pena, unica e transitoria, quella che per altri è stata una pena accessoria e definitiva.
Ma se anche si volesse considerare solo quantitativa la differenza che incorre tra i giorni e l’eternità, resterebbe pur sempre il fatto che la sanzione non ha in questo caso carattere di massa, scarso è infatti, in ogni comunità, il numero dei collaborazionisti. Non esiste quindi una moltitudine in cui ci si può confondere e in cui si può essere confusi, per questa ragione si resta fin troppo identificabili e, quel che è peggio, identificati. La pena si è mutata dunque nel suo contrario.
Del resto i capelli, a differenza delle gambe, ricrescono, come possono testimoniare questi soldati russi liberati da un campo di prigionia tedesco.
Anche la mutilazione diventa un simbolo che sostituisce una prassi reale perseguita attraverso la negazione delle cure, lo sfruttamento totale, la sperimentazione criminale.
La differenza dirimente sta tra ciò che è in qualche modo rimediabile e ciò che non lo è affatto.
Se ci riferiamo alle immagini la differenza è rispetto al loro porsi, come anelli di una catena, tra un prima e un dopo.
Nel caso in questione, non abbiamo difficoltà ad immaginare, sull’album della nostra eroina, una sua foto tessera in cui sfoggia capelli a la garçonne – che separi - lontana eco di una brutta avventura – il ricordo della cresima dalle fotografie in abito da sposa.
Ma è difficile figurarsi che l’album dei ragazzi russi possa proseguire con istantanee riprese su un campo da calcio o da sci.
Quest’ultima considerazione può far nascere il dubbio che il peso temporale del castigo sia stato erroneamente valutato.
Potrebbe infatti darsi che la ragazza di un tempo, oggi anziana signora, sfogliando le pagine dell’album, si soffermi proprio su quell’ingiallita foto tessera, avvertendo ancora pieno in gola il gusto amaro dell’umiliazione.
La pena dunque, lungi dall’essersi esaurita nel breve lasso della sua erogazione, sembrerebbe avere ancora durevoli effetti.
Naturalmente qui si sta confondendo l’entità oggettiva della pena con le sue conseguenze soggettive, che dipendono dalla sensibilità e dalla coscienza dell’individuo.
Si tratta i di variabili d’ordine psicologico e morale difficili da prevedere e valutare, estendendosi su un largo spettro di sentimenti che vanno dal disappunto di chi si sente smascherato, al pentimento di chi prova rimorso; dalla vergogna di chi si sente messo alla berlina, al rancore di chi si ritiene vittima di un’ingiustizia o di un errore.
Sentimenti molto diversi per carattere ed intensità, anche se sempre negativi. Ma è comunque positivo il fatto che ci siano, dimostrano infatti che al di là della pena c’è un dopo in cui riannodare i fili della propria esistenza.
Breve sarà invece il rancore che l’ignoto partigiano jugoslavo serberà nei confronti del sottufficiale italiano che lo umilia con un ultimo atto di vile prepotenza.
Siamo già giunti, infatti, sul luogo dell’ esecuzione e ben poco tempo gli resta per tentare un bilancio della propria esistenza.
Forse, nell’attimo estremo, la consapevolezza della dignità della propria fine dissolverà, insieme al rancore, ogni pentimento, ogni vergogna, ogni rimpianto.
Certo non gli capiterà, attempato, di riprovare, davanti ad una vecchia immagine, un bruciore attuale per un’offesa lontana. Ma non per questo la sua pena sarà stata più lieve.
L’immagine della vergogna da cui siamo partiti ci ha portato, per continuità semiologica, su un itinerario di altre immagini a cui è correlata anche sotto il profilo storico. Questa viene non solo dopo, ma anche a causa di quelle.
Al termine del percorso il primitivo senso di rifiuto si è ricomposto attraverso un adeguato processo di razionalizzazione.
Certo si può osservare che la scelta delle successive immagini è di per sé dirimente, facendo impallidire, di fronte all’orrore, il relativo disgusto ingenerato dalla prima fotografia.
Ci si poteva limitare a giustapporle invitando, con gran risparmio di parole, a un immediato confronto.
Ma non era questo l’intento, non si voleva dar luogo ad una classifica del delitto, ad un confronto sui livelli di aberrazione, alla consueta computisteria del meno peggio.
Si voleva invece richiamare l’attenzione sulla non liceità di procedimenti che tendono ad isolare un singolo episodio dalla concatenazione degli eventi in cui è inserito e che in gran parte lo determinano.
Dal punto di vista delle immagini, soprattutto se sono assunte come documento, non è quindi corretto ritagliarle dal loro contesto storico, ipostatizzandole rispetto alla dialettica dei fatti. Fermati attimo, sei brutto! Avrebbe detto Faust, ponendo in modo inconsulto le premesse per la propria dannazione.
Il fatto che anche le immagini siano anelli di una catena orientata temporalmente spiega la ragione per cui cambiano, nel corso delle epoche, sia i modi della loro rappresentazione, dando luogo ai differenti stili, sia i modi della loro percezione, cioè il mutare dei gusti. 
Anche l’immagine più domestica e ripresa nella più lieta delle circostanze, può essere decodificata, col senno di poi, con un codice ben diverso da quello degli originali intendimenti: è l’ultimo Natale del povero zio Alberto, guarda che espressione! Si vede proprio che già se lo sentiva.
E se magari lo zio Alberto stava solo lottando con i propri succhi gastrici, esaltati dall’opulenza del cenone, senza presagire fine alcuna, con ben diversa fondatezza noi possiamo invece dire che negli statuari corpi dell’ Olympia di Leni Riefenstahl sono già scolpite le orrende parche delle teorie della razza, che il vigore di nudi atleti già mostra la nuda fragilità d’infanti, di vecchi e di affamati, che le nubi nere sopra Berlino celano, già nel 1936, il venturo, inevitabile Götterdämmerung.
Analogamente nel gesto che sacrifica la chioma possiamo già spiare sapienti maquillage di imminenti concorsi di bellezza, così come fin da ora vediamo gli occhi dei curiosi astanti rivolgersi ai duelli, ormai prossimi ,tra Bartali e Coppi e perfino quel viso contrito possiamo già figurarcelo, avvolto in provvido velo, a sfilare, confuso tra tanti, nelle future processioni della Madonna Pellegrina.
La successione degli avvenimenti è infatti questa.
Si apre dunque proprio con questa scena, che cala definitivamente il sipario sull’età della morte e dello smarrimento, una stagione di rinascita e di speranza.