In quanto uomo, m'impegno ad affrontare il rischio dell'annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo
la loro luce essenziale (Frantz Fanon)

martedì 6 dicembre 2011

TRAGEDIA DI UN CARNEVALE BORGHESE

All’indomani della guerra di Liberazione, molti giovani intellettuali di estrazione borghese pensarono, in tutta sincerità, di essere comunisti.
Il gruppo dirigente del partito, formatosi in decenni di esilio, confino, carcere,  lager e guerra partigiana, ebbe a dubitarne. Pensò, non senza ragione, che su di essi si esercitasse il fascino che derivava dall’esser stati, i comunisti, i più coerenti e strenui oppositori del regime fascista, ma che tale infatuazione potesse rivelarsi volatile, nel momento in cui, riconquistata la libertà, le suggestive sirene del pensiero borghese avessero ricominciato a cantare.
Si corse dunque ai ripari, approntando strumenti di diffusione a diversi livelli («Società», «Rinascita») ed editando d’urgenza i quaderni di Gramsci, nel cui pensiero, maggiormente modellato sulla modernità, rispetto a Marx ed Engels, e al contempo meno schematico del meccanicistico diamat staliniano, si dovevano trovare gli anticorpi per reagire all’inevitabile contrattacco del nemico di classe sul fronte culturale.
Due, in quel momento, erano le principali minacce: Benedetto Croce, sul cui magistero  traluceva l’aura dell’esser stata, la sua, l’unica voce critica (e autorizzata) del trascorso ventennio, e Jean Paul Sartre, che al prestigio della partecipazione alla Resistenza, associava la seduzione esercitata dall’endemica propensione al cosmopolitismo degli intellettuali italiani.
Il bilancio dell’ operazione Gramsci [con dichiarato riferimento a: Francesca Chiarotto, Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell'Italia del dopoguerra, Bruno Mondadori] è, qui, estremamente sommario: se, da un lato contribuì, con il concorso del cambiamento di linguaggio indotto dalla nascente società dei consumi, a rendere inattuale, e a ridurre a nicchie di testimonianza, l’idealismo laico crociano, dall’altro, approdò ad un onorevole armistizio nei confronti dell’esistenzialismo, la cui fortuna carsica doveva godere dell’innegabile credito morale di Sartre, poi ulteriormente ampliato dalla coerente e coraggiosa posizione assunta negli anni della guerra di Algeria.
Intendo dire che tra gli intellettuali, anche dichiaratamente comunisti, italiani non fu mai presa sul serio – e se mai, messa in burletta – la definizione (del resto, attribuita con una certa imprecisione) di György Lukács, per il quale l’esistenzialismo sarebbe stato il carnevale permanente dell’interiorità feticizzata.
Ora, tale definizione mi è tornata in mente – applicata al suo corretto dominio, il pensiero della novecentesca età della Krisis – a proposito della morte di Lucio Magri.
Nel revival dei torbidi chiaroscuri nietzschiani, in cui il soggetto accampa i suoi diritti, magari contro l’apodittica oggettività dei processi di Mosca e di Praga, si è annidato infatti il tarlo che ha riportato all’egemonia, all’interno dello schieramento di sinistra, il pensiero borghese. Disgiungere, malgrado i suggerimenti di Merleau-Ponty, l’umanesimo dal terrore, serve a rimettere al centro del mondo l’individuo e a reiterare, quindi, la rivoluzione della borghesia (che, pure, sul terrore, assunto addirittura a periodizzazione storica, si è fondata). 
La morte ha però resistito alla pretesa dei lumi di razionalizzare e dominare l’intera natura e l’ottimistica ipotesi di Condorcet – Sarebbe assurdo supporre …che debba giungere un tempo in cui la morte sarebbe soltanto l’effetto  di accidenti straordinari, o della distruzione sempre più lenta delle forze vitali; e da ultimo che la durata dell’intervallo medio tra la nascita e quella distruzione non abbia essa stessa alcun termine assegnato? – non si è realizzata e, probabilmente non si realizzerà mai, un estremo limite si oppone alla pretesa onnipotenza dell’uomo.
Rispetto a questo scacco delle magnifiche sorti e progressive, il pensiero illuminato ha reagito decostruendo il senso sociale della morte, per confinarla nel novero degli incidenti individuali, in perfetta consonanza con gli scopi delle moderne società d’assicurazione.
Questa tattica di rimozione e occultamento, estesa a tutta la partita del sacro, ha funzionato, per un certo periodo, come può funzionare, per la casalinga pigra, il trucco di scopare la polvere sotto il tappeto.
Addomesticata da mezzo secolo di pace e welfare, la componente istintuale, il nostro substrato più antico, in cui sedimenta il pensiero magico, ha taciuto, o quasi, ma si è prontamente risvegliata nel momento in cui, affermata la dittatura del libero mercato, alla politica è rimasta riservata unicamente la dimensione residuale del simbolico.
La terra, il sangue e dio, sono immediatamente ritornati ad essere temi di mobilitazione delle masse.
Solo una modesta frazione della sinistra, e con mille ambivalenze, ha perseverato nel suo compito storico: palesare l’ingannevole natura di conflitti centrati su fantasmi sovrastrutturali,  decifrando le trasformazioni di struttura che essi celano.
La gran parte si è invece dislocata nel nuovo ambito dello scontro simbolico, assumendo posizioni solo apparentemente antagoniste, basate sul semplicistico criterio del rovesciamento delle altrui posizioni, che non sempre danno fedelmente conto del piano che il capitale persegue a medio e lungo termine.
In particolare, su alcune questioni di bioetica, l’intero ventaglio della sinistra si è appiattito sulle facili posizioni del cosiddetto laicismo (in realtà inteso, quasi esclusivamente, come sistematica critica alle gerarchie cattoliche), con conseguente accettazione, per quanto riguarda l’uomo, di pratiche che vengono rifiutate per animali, vegetali e ambienti fisici.
Così facendo si incorre in un doppio errore, da una parte si considera, per metodo, regressiva ogni difesa della tradizione, cosa non sempre vera, dall’altra si perdono di vista i laicissimi interessi  dell’industria farmaceutica e del commercio d’organi.
Sulla morte, è evidente il rovesciamento di posizione rispetto all’abituale atteggiamento di contrasto del programma capitalista di dominio della natura. Qui, sottrarsi alla logica naturale sembra lecito.
E poiché non sembra attuabile il vecchio piano di Sisifo, di beffare la morte, sottraendovisi, come premio di consolazione si propone di canzonarla, anticipandola.
Torniamo dunque alla tragica fine di Lucio Magri, per cercare di fare un ragionamento.
Intanto è fuori di dubbio che Magri, come qualsiasi persona di maggior età, aveva il diritto di disporre di sé. Il dibattito, se mai, attiene alla condotta della clinica svizzera in cui si è consumata la sua fine.
C’è chi ne apologizza il comportamento, ha fornito il servizio richiesto. Questa posizione trascura una questione delicata: fermo restante il diritto di un adulto di drogarsi, prostituirsi o uccidersi, siamo stati per molto tempo abituati a considerare, invece, uno sfruttamento penalmente punibile, l’eventuale lucro di altri su tali scelte. Dobbiamo ricrederci?
Ma, si obbietta, la clinica ha preteso da Magri un certificato che attestasse uno stato patologico particolare.
Trascuriamo il fatto che la diagnosi in oggetto evidenziava una depressione (di cui, nel mondo, soffrono 121 milioni di persone) e prendiamola per buona, ma ci rendiamo conto che questa pretesa di oggettivizzare una condizione soggettiva, ci riporta dritto dritto, pur con altre parole alla nozione di vita che non val la pena di essere vissuta?
Ricordiamo anche chi l’aveva teorizzata.
Inutile dire che il fatto che la decisione sia riservata all’interessato, piuttosto che a una commissione di medici, non sposta di un millimetro la questione. (Ma allora, perché serve un certificato?)
Utile, invece, dire, che una volta stabilito il principio di base, i dettagli possono cambiare, e che negli scenari economici venturi potrebbe cambiare sia la titolarità della scelta, che la facoltatività dell’operazione.
Non sarebbe la prima volta che la destra spalancherebbe porte improvvidamente socchiuse dalla sinistra. Del resto, anche il programma nazista di eliminazione dei minorati aveva preso l’avvio dal lavoro dei più laici, positivisti e progressisti psichiatri tedeschi.
In ogni caso la sinistra, intrigandosi in queste questioni, si trova a parodiare il comportamento della chiesa d’antan, che invece di propugnare soluzioni per rendere meno grama la vita, consolavano il popolo con la prospettiva della buona morte.
Se dunque rispettiamo la resa di un uomo stanco e malato, la nostra condanna nei confronti di cinici apparati mossi unicamente dalla prospettiva del profitto è totale, così come senza mezzi termini disapproviamo quegli atteggiamenti teorici che, enfatizzando l’io dell’individuo a detrimento del suo essere sociale, incoraggiano queste scelte.
La morte,  significante senza significato, dovrebbe indurci alla discrezione di Wittgenstein, di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere.






 
 
  


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